Pubblicare un post su Facebook potrebbe sembrare un attività priva di rilevanza giuridica. Scrivere un commento, pubblicarlo nella propria bacheca, è attività quotidiana per molti internauti. Spesso però, non si è consapevoli che, al pari di ogni attività umana, anche questa potrebbe assumere una certa rilevanza giuridica. Per la fretta, per distrazione, per mancanza di consapevolezza degli strumenti e delle risorse informatiche utilizzate, si possono commettere anche dei reati.
È quanto capitato ad un maresciallo della Guardia di Finanza il quale, in un momento di sfogo dovuto ad episodi accaduti sul posto di lavoro, ha pubblicato sulla propria bacheca una frase in cui offendeva la reputazione di un collega.
Con la sentenza 16712/2014 del 16 aprile 2014 la Cassazione, in linea con la decisione del Tribunale militare e in riforma della sentenza della Corte militare d’Appello, ha sostenuto che la condotta del maresciallo ben poteva integrare il reato di diffamazione, nonostante fosse stato accorto nel non nominare direttamente la persona oggetto del suo sfogo (elemento sulla base del quale il militare era stato assolto in secondo grado).
Secondo la Corte, “ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla funzione nominativa”. Nel caso di specie è evidente che, essendo il commento visibile a tutti i contatti del militare, alcuni dei quali sicuramente in grado di capirne il contesto e la persona a cui si riferiva, il contenuto della frase pubblicata assume una valenza diffamatoria.
Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, invece, la Cassazione rileva che il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che questa venga a conoscenza di più persone.
Alla luce di questi criteri, la Corte militare d’Appello dovrà pronunciarsi nuovamente sul caso, per rivalutare la sussistenza del reato contestato di diffamazione.
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